Lettera a Gian
A Gian Vincenzo piaceva moltissimo inviare e ricevere lettere.
In tempi assaliti dall’informatizzazione e dalla telefonia mobile, produrre
missive cartacee è impresa sempre più anacronistica.
Questa lettera a Gian è vergata a mano ed è elaborata secondo
modalità a noi consuete:
Caro Gian,
oggi la giornata è chiara, serena, favorevole alla scrittura ed io mi
sento in vena di comunicazioni. Perciò eccomi a te.
Pochissimi – quasi nessuno – di quelli che ti hanno conosciuto da
vicino sanno che in qualche cassetto, tra le tue sudate carte, giacciono composizioni
segrete. Versi in lingua italiana. Inediti.
Privati. Abbiamo attestato la tua passione per il giornalismo, per la saggistica
storica, per la critica d’arte e, non ultima, quella per le tradizioni.
La prosa è stata al centro della tua ricerca e tu sei stato un prosatore
a trecentosessanta gradi.
E, pure, hai scritto di poesia e di poeti, soprattutto locali e dialettali.
Come non ricordarci di Ernesto Ragazzoni di Orta, dei Cinq da Nuara (Sandro
Bermani -Lisàndar-, Malilla De Angelis, Luisa Falzoni, Giulio Carlo Ginocchio
–Ginöcc-, Dante Ticozzi) e di Pinet Turlo, il poeta ciabattino della
tua Grignasco, che scriveva le sue opere “spesso con le dita ancora impiastricciate
di pece”?
Dei vernacolari in particolare hai colto, con intensa partecipazione emotiva,
la capacità di “cantare” utilizzando una parlata a volte
rude a volte elevata a dignità di vera lingua letteraria, ma sempre aderente
alle origini, genuina, viva. Come medico hai sentito l’Ippocratico dovere
di essere vicino a quelle “voci” che più hanno fatto proprie
le modulazioni dei sentimenti della gente comune ed il relativo microcosmo.
E, a ben pensarci, chi, se non il medico, deve avere nel suo armamentario diagnostico
terapeutico la cosiddetta “mobilità linguistica”?
L’abilità di alternare l’italiano ed il dialetto (meglio:
l’italiano ed i dialetti) in rapporto alla situazione ed all’interlocutore
rappresenta un valido presidio per auscultare la persona che soffre –
e attualmente soffre molto – anche a causa del progressivo inesorabile
deterioramento della memoria storica. La pratica ci insegna che le mnesi deficitaria,
a dispetto dei supporti farmacologici, prima o poi si spegne, definitivamente.
Adesso ti rivedo, Gian, puntuale all’avvicinarsi delle festività
natalizie, porgermi, con amicizia, il tradizionale tuo dono.
Un involto cartaceo a custodire tre tesoretti: Al Taquin da Rumagnan. Il Quaderno
di poesia dialettale valsesiana e… l’Almanacco Veneto.
Modestamente pensavi (sono parole tue) di portare soltanto il tuo piccolissimo
granulo alla passione per il recupero di tutto quanto avesse mai espresso l’amatissima
tua terra. E invece avevi raggiunto al cuore il problema: il dibattito, modernissimo,
sull’uso delle lingue. Anticipando, ciò che ora è divenuta
urgenza. La necessità di preservare la lingua nazionale dalla intrusione
di espressioni dialettali italianizzate in “un impasto linguistico anomalo
che non è un dialetto e neppure italiano”.
Nel contempo la necessità di impedire l’asfissia delle radici della
nostra lingua familiare, la lingua degli affetti, intesa come dialetto, provocata
dalla sua eccessiva italianizzazione. E per entrambi i codici, ancora la necessità
di contrastare il pericolo indotto dall’invadenza ormai planetaria delle
lingue plasticate, omologate. Gergo politico, informatico, burocratico: ipertrofici;
abuso di vocaboli, stranieri, insidiosi, distorti dalla macdonaldizzazione.
La via della rabdomanzia per le parole perdute, perdute sì ma ritrovate,
è lunga e stretta. Percorrerla, per me, è divenuto indispensabile.
Come è indispensabile avere pane e acqua sulla mensa quotidiana. Quelle
parole stesse si sono mutate in cibo per il sostentamento della vita, nella
sua pienezza.
Grazie, Gian, per avermelo ricordato. Un abbraccio, ciao
Dott.ssa Cristina Negri
Arona, 25 ottobre 2003