Le grand jour de Marguerite

di Gaetan Lecoq

Margherita stava sulla soglia della porta, con i piedi ben separati e i pugni sui fianchi; il suo sguardo vagava, mentre il piacere all'angolo delle labbra le colorava di rosa le guance e la faceva sorridere. Il tempo era tiepido, la primavera era in anticipo quest'anno.
"E' un bel giorno, Papineau" mi disse "E' un bel giorno per essere il mio Giorno. Tu capisci, Papineau! Sarà oggi il mio giorno".
Lei mi ha sempre chiamato Papineau, mai con il nome, solo con il cognome. Io ero sdraiato sulla poltrona che aveva portato fuori sul terrazzino e la guardavo. Io non posso più muovermi troppo per i reumatismi. Nel sole dell'aurora, aranciato e vivo, lei scosse la testa, dando dei colpetti con il mento, come se volesse sfidare il giardino a un nuovo combattimento. Ha il suo atteggiamento di sempre, lo stesso da che la conosco, ed è da molto tempo. Solida e fiera, decisa e forte. E' vero che non le si danno i suoi ottant'anni.
Lei si avvicina alla rimessa, vi entra e fruga, facendo un rumore d'inferno. "Ma non è possibile, per Dio!" la sento gridare dall'altra parte del giardino "Non è possibile, per Dio, Papineau, mi hanno preso i miei arnesi. Capisci? Niente più vanga, niente più rastrello, niente più secchio, niente più zappetta, più niente. Maledetti nipoti! Pensano ancora che mi farò male o avrò una vertigine con un attrezzo in mano! Ma non è possibile, per Dio! Tutta una compagnia di fannulloni, nemmeno capaci di venire a farlo al mio posto, il giardino. Allora bisogna pure che qualcuno se ne occupi e non ci seno che io. E poi io sono la sola che può capirlo, questo giardino. Il dottore gliel'ha detto che avevo bisogno di esercizio. E un giorno come oggi, è buono per il giardino. Non credi, Papineau?" Come risposta le mando un brontolio, non c'è bisogno di fare delle frasi, Margherita si esprime per due. E dopo il mio attacco di paralisi, dalla mia gola escono pochi suoni. Allora resto sulla poltrona a guardarla agitarsi, arringare, muoversi, fare gesti e gesti. La guardo, lei mi parla e io sto bene. "Bisognerà che me la sbrogli con quello che passa il convento", continua lei rimboccandosi le maniche e rianimata come pochi entra con passo deciso nella cucina.
Il giardino ha aspetti da foresta vergine. Le siepi di tuya sono così fitte che invadono il sentiero che costeggia il praticello. Cespugli di bossi odorosi circondano questo quadrato d'erba. Tutti i bossi sono ispidi come bambini spettinati e si battono con i rovi dalle spine aggressive. Tra le erbe alte e umide si vedono la piantaggine e il muschio venire a coprire quello che resta del prato. Erbe scapigliate sono spuntate fino sul sentiero e, ai piedi delle betulle e dei noccioli, si mescolano alle ortiche e alla gramigna. In fondo al giardino, circondato da una bassa siepe di fusaggine piumata, soffocata in quel momento dai rovi, si trova il tesoro di Margherita. Senza sosta, i visitatori venivano qui numerosi per ammirare questo giardino, il "famoso giardino di Margherita" come si diceva nel paese. Dietro le fusaggini, all'estremità del viale che serpeggia tra i bossi, Margherita ha messo tutto il suo cuore. Dapprima un pergolato, attorno a un vialetto ben diritto, coperto da roseti rampicanti dalle tinte delicatamente digradanti tra il rosa pallido e il rosso scuro. A destra e a sinistra, dei cespugli, dei panieri, delle aiole tutte piantate a rose, delle varietà più disparate. In fondo, una pergola, di regola coperta di rose canine, sotto la quale, d'estate, Margherita riceve i suoi ospiti. Sulle spalliere laterali, infine, rosai rampicanti, uno più bello dell'altro. E' un roseto straordinario quello che Margherita ha piantato nel giardino della fattoria. Ogni anno, da sessantanni, Margherita pianta, taglia, fa germogliare, spunta, trapianta, zappetta, sarchia, copre di paglia, cura, annaffia, innesta. Un bel roseto, il "famoso giardino di Margherita. Cioè, era un bel roseto. Perché, due anni fa, con la spalla rotta dopo una caduta dallo sgabello, per una vertigine, aveva detto l'ospedale, Margherita ha dovuto rassegnarsi a lasciare il suo bel giardino e le sue belle rose senza cure, invase dalle erbe alte e dai rovi, dall'edera e dalla gramigna, dai pidocchi, dalle lumache e dai ragni. E Margherita odia i ragni. Anche le rose li odiano, d'altronde.
Margherita ritorna nel giardino. Si è messa il suo cappellone di paglia che comincia a sfilacciarsi ai lati. In una mano ha un grosso paio di forbici, nell'altra un grande cucchiaio di legno e nella tasca davanti del grembiule si indovina il manico di un largo coltello da cucina.
"Sono pronta," mi dice. "Vado a ridare la vita, alle mie bambine. Vedrai, Papineau, è il mio Giorno, ti dico. Devono essere vestite a festa, le mie coccoline, una bella toilette per il Giorno di Margherita"
E il lavoro comincia. Margherita taglia a colpi di forbici, diserba a grandi manate -ha ancora delle manate formidabili, la mia Margherita- zappetta la terra ai piedi dei gambi con il cucchiaio di legno, porta il letame a piene braccia per sparpagliarlo sul terreno. Verso mezzogiorno, i cespugli di rose sono belli come non mai. Si riconoscono millefoglie rosse e bianche, rose cappuccine con varietà gialle o anche bicolori. Poi è la volta della pergola dalle tinte rosa e rosse, sbarazzata dell'edera che la soffocava. Verso le due del pomeriggio la pergola è liberata anche lei, i rosai ibridi di rose canine mostrano i loro bei colori. Si ritrovano allora le sfumature colorate di tutto il roseto che rinasce sotto le dita di Margherita. Qui il bianco madreperlato, il rosa pallido, il giallo vivo o il rosso profumato della "Gloria di Digione"; là, i fiori larghi e bianchi dei roseti che si arrampicano sulle spalliere; là ancora rose in bottoncini dorati, roseti selvatici dalle tinte salmone, grandi rose rosso carminio che, chinandosi, sembrano salutare la loro padrona. Ma Margherita non si lascia commuovere dall' aspetto ritrovato del roseto. Alle quattro e mezzo, i viale sono diserbati. Alle cinque attacca Con il taglio dei boschetti di bosso, con il suo gran paio di forbici che tiene a due mani per darsi più forza. Non si ferma, non mangia, beve giusto una tazza di caffè quando la fatica si fa sentire verso le tre del pomeriggio. Di solito, questa è l'ora della siesta, che noi facciamo ciascuno nella sua poltrona, sotto la pergola fiorita, d'estate, vicino alla stufa in cucina in autunno e in inverno. Alle sei, le tuye sono passate dal parrucchiere per una rinfrescatina di primavera: Niente vale il taglio di marzo! "Vedi, Papineau, non era così difficile...Neanche affaticata, la vecchietta! Ti dico che era il rnio Giorno. Io l'ho sentito, stamattina, svegliandomi. Avevo come un'energia che mi veniva dal fondo di me, capisci. Mi sono detta, visto che è il mio Giorno, bisogna che il giardino sia pronto. Come il giorno in cui sei venuto a raggiungerci, Papineau. Ti ricordi? Che anno era?...Sì, il 44, marzo del 44, hai ragione," mi dice lei. "Gli americani avevano fatto esplodere tutto, attorno alla grande stazione, hanno sbagliato ben bene il colpo i tuoi compagni, quel giorno là. Tutti i villaggi a sud sono stati toccati, fuoco e fumo nero sul paese per otto giorni interi. Le bestie tossivano e noi morivamo di paura in fondo ai granai. Non è perché la fattoria è a nord della città che noi fossimo al sicuro. E poi, c'è stata la notte in cui tu sei caduto dal cielo. Che paura ci hai fatto, Papineau, appeso al tuo coso in tela kaki, tutto impigliato negli alberi del bosco Sevestre, là in basso dietro la fattoria. Che strepito! I cani che abbaiavano e tu che gridavi: "Aiuto! Aiuto!" con il tuo strano accento. Su, possiamo riderne oggi. Tu non ti sei fatto pizzicare con il tuo paracadute. E grazie a chi? Grazie alla Margherita, sicuro! Bisogna dire che avevi degli occhi dannatamente belli e una paura da fartela nei pantaloni.. D'altronde, non mi hai mai confessato se... Eh, continui a non volerlo dire. Ah! Ah!, mi fai ridere, Papineau! Nell'istante in cui ti hanno staccato dall'albero, ho saputo che mi piacevi. Tu mi capisci bene, Papineau. Nell'istante stesso! E' molto semplice, non ho dormito tutta la notte, il cuore mi batteva come un tamburo, percepivo rumori di stivali che non esistevano, credevo di sentire voci di Crucchi, tanto avevo paura che venissero a cercarti. Ma no, nessun tedesco, neppure una riga sul giornale, nessuna visita della milizia, niente. Nessuno ha parlato, alla fattoria. E tu, tu sei restato. Fino alla fine della guerra, fino a oggi anche. Mi ricordo, quando hai potuto parlare, dopo il sidro e il pane duro che restava e che hai inghiottito come se tu ritornassi dalla morte. "Io mi chiamo Réjean Papineau e vengo dal Québec..." Io credo che alla fattoria nessuno ne aveva mai sentito parlare, del Québec, né mio padre, né i fratelli. "E' una provincia della Germania?" ha chiesto la mamma che ignorava le questioni geografiche. Tu hai riso, dapprima piano piano, poi sempre più forte. Tanto forte che ne piangevi e che mio padre, i fratelli e io abbiamo riso con te, si è anche pianto. Pianto per aver avuto paura e per poter ridere così veramente, dal fondo della pancia.
"Non abbiamo riso così da un po' di tempo", ha detto mio padre. Tu cercavi di parlare, ma il riso te lo impediva. "Sono quasi Francese", ci hai detto in un singulto di riso. "Vengo dal Canada!" Appoggiando sulle A, cA-nA-dA! Ah! Vedi, ne rido ancora.
Ti abbiamo nascosto, ti abbiamo insegnato a mascherare il tuo accento, ti abbiamo fatto passare per un cugino di Parigi. Sei diventato uno dei nostri, Papineau. E poi hai visto il giardino. Non era ancora una meraviglia, lo sai, ma io avevo già il gusto delle rose, dei roseti, delle barbatelle. Tu hai fatto: “Bene, allora!" Con degli occhi buffi come biglie. E' quel giorno là che hai colto una rosa nel mio giardino, una "Regina delle nevi", bianchissima, ancora in boccio. Con il tuo coltello, hai tagliato le spine, poi ti sei voltato verso di me e me l'hai infilata fra i capelli sopra l'orecchio sinistro. Vedi che me lo ricordo bene. E tutti i dettagli, Papineau. Sai, non ho dimenticato niente, niente. Dal primo giorno fino ad oggi...
Non trovi che fa freddo? Vado a cercare delle coperte per approfittare del giardino fino a notte." Margherita è tornata con dei plaid e un album di foto. Abbiamo lasciata cadere la notte lentamente nella dolcezza dell'aria. Voleva mostrarmi delle foto dell'epoca della guerra, ma la mia vista non è più tanto buona. Poi dobbiamo esserci addormentati. A lungo, dopo che avevo chiuso gli occhi, mi sono lasciato cullare dalla voce di Margherita che raccontava, raccontava. Era il suo Giorno, diceva. E lei era fiera. Nel mio dormiveglia, la sentivo sfogliare il suo album di foto.
Al mattino, la vicina è venuta a vedere che cosa facevamo ancora fuori. Mi ha svegliato senza difficoltà e mentre mi stiravo, ha cominciato a dire delle parole più in fretta e con dei singhiozzi nella voce. Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Il dottore è venuto subito. Ha auscultato Margherita. Molto in fretta, troppo in fretta, insomma è il mio parere. E' morta, ha detto. Così, in un colpo, senza emozione nella voce. E poi, ha aggiunto: allora chi si occuperà del cane?
La vicina mi ha guardato con un'aria molto dolce. Sapete, dottore, dal giorno in cui il giovane pilota canadese è stato trovato morto, appeso al suo paracadute nel bosco Semestre nel 44, credo che lei ha perso la testa del tutto, la Margherita. Del resto, aveva chiamato il suo cane come il pilota, Papineau. Non, non è il vecchio cane che mi preoccupa, dottore...Sono le sue rose! Guardate come è splendido il giardino!