L’appartamento

di Valter Ferrari

È vuota da tempo questa casa.
All’ultimo dei piani di un palazzotto ammuffito del centro.
L’aria pesante che la opprime ha il sentore di vecchio e di appassito, lo stantio amaro del chiuso e del distacco, soffocante è l’invadenza del suo silenzio, anche il monotono gocciolio di un rubinetto pare il lacrimare composto di una veglia. Ho spalancato le persiane al sole di un maggio fiorito e alla vista di una distesa infinita di tetti dai coppi macchiettati, curiosando tra i cortiletti ombrosi e le piazzette raccolte della città vecchia… Immagino che davanti a questa finestra del salotto fosse stata messa una poltrona, un’ottomana dai colori tenui….. E penso a come per una vita intera, avesse guardato fuori…quel ritaglio di mare che sfuma all’orizzonte, nella vana attesa di un ritorno, di una telefonata anonima, di una lettera d’addio… Ci sono indizi che suggeriscono abitudini e capricci, pignolerie , come le mollette da bucato , perfettamente ordinate, in una scatola da scarpe…un pettine di madreperla con il suo astuccio trasparente, qualche saponetta alla lavanda ancora impacchettata, una vaporosa mantellina appesa ad un gancio, sulle piastrelle confetto di un bagno intartarito. Sono rimaste poche cose, in questa casa spogliata, trascurabili nullità lasciate da una mano furtiva, eppure così vere ed allusive per chi, come me, ha bisogno di sapere.
Una decrepita macchina da cucire a pedale, …e rocchetti di filo, aghi, elastici, cerniere e spilli in una cassettina di legno…forbici arrugginite e gessetti spuntati danno l’idea del lavoro di una sarta, di una rammendatrice … La penso, con un paio di occhialini sul naso, china ad imbastire orli a pantaloni, ad attaccar bottoni, ad impunturare giacche …… Sono salito a vedere questo appartamento da solo. Ho ritirato le chiavi dal portiere, acido e scontroso, di poche parole … Terzo piano, interno nove, un’interminabile sfilata di gradini precari, una scala angusta e cupa… Sono salito lento, con il passo pesante della mia corpulenza e della mia età, per incontrare qualcuno. Della cucina non hanno lasciato nulla. Chi ha saccheggiato questa casa, con la scusa di una custodia cinica e venale, l’ha fatto nella certezza che nessuno l’avrebbe più pretesa e tanto meno abitata. C’è uno scatolone, proprio sotto il lavandino dove gocciola quel tedioso rubinetto. Un colapasta, un apriscatole antiquato, quel che resta di un servizio di posate, sette bicchieri spaiati, una manciata di tappi di sughero, un ferro da stiro…un crocifisso, un album di fotografie… Poche, rare istantanee in bianco e nero di una giovane donna, con i lunghi capelli raccolti a crocchia e grandi occhi persi nel vuoto, un mezzo sorriso d’insopportabile lontananza, un volto magro, affilato… Altre, a colori, in un’età matura, nell’effervescenza di una gita a Venezia. Una sola, ingiallita, fotografia di un marinaio in divisa. C’è un calendario alla parete fermo all’ultimo settembre. Ho riconosciuto subito la scrittura, nelle brevi annotazioni appuntate sulle sue pagine leggere; un numero di telefono, un nome, una scadenza,un indirizzo. La stessa calligrafia minuta di quelle lettere senza nome, colme d’amore e di disagio, che ricevevo quando ero bambino. E ho rivolto lo sguardo verso il mare, da cui sono venuto per metà, la travolgente passione di una notte e tante promesse infrante, e poi oltre le colline, là dove il sole andrà a morire, alla Divina Provvidenza, dove mi hanno cresciuto. Ho una moglie e un lavoro arrabattato con fatica, vivo in affitto da una vita. Questo appartamento diventerà la nostra nuova casa, arrivata qualche settimana fa con la fredda raccomandata di un notaio, l’inaspettata volontà di una sconosciuta: Adesso so com’era, dalle poche cose lasciate in questa casa che mi parlano di lei. Ho dato l’acqua a quella strana pianta abbandonata sul balconcino, miracolosamente sopravvissuta, come me, ad una stagione difficile e ho trovato la forza e la pietà di perdonare a mia madre.